martedì 4 febbraio 2014


 

«Una ricerca affascinante per il superamento del comunismo»
Massimo Fagioli
sul n.45/2010 di LEFT
m
«Una lotta, senza armi, soltanto rivoluzione del pensiero e parola»
Massimo Fagioli
sul n°49/2008 di LEFT

martedì 27 agosto 2013

QUI DI SEGUITO, UNA SELEZIONE DI ARTICOLI USCITI SU L'UNITÀ, IL FATTO, IL CORRIERE DELLA SERA E LA REPUBBLICA NEL PERIODO 20 LUGLIO - 27 AGOSTO 2013

DA L'UNITÀ:
l’Unità 21.7.13
Anniversari
Rodano, la speciale laicità del cattolico comunista
di Marcello Mustè

l’Unità 21.7.13
Quel «18 brumaio» spiegato da Franco mi conquistò
di Claudio De Vincenti

l’Unità 29.7.13
Papà Gramsci. Le lettere e le fiabe scritte per i due figli
di Giovanni Nucci

l’Unità 30.7.13
Propongo Papa Francesco segretario del Pd
di Carla Cantone

l’Unità 31.7.13

Cambiare sesso in Italia: l’esperienza degli psicologi

l’Unità 2.8.13

Hannah e le altre
Le tre donne di Nadia Fusini
di Valeria Viganò

l’Unità 3.8.13
Salvatore Settis
«L’unica buona notizia è l’indipendenza dei giudici»
intervista di Rachele Gonnelli

l’Unità 28.7, 4.8, 11.8, 18.8

Indagine su San Francesco
di Giovanni Nucci

l’Unità 7.8.13
Rodotà: a ottobre in piazza per la Costituzione
di Andrea Bonzi

l’Unità 11.8.13

La sinistra ritrovi il suo vero avversario
di Mario Tronti

l’Unità 17.8.13

Nell’intimità delle passioni
La filosofia si interroga sui sentimenti umani
di Gaspare Polizzi

l’Unità 17.8.13
La rivoluzione di una vera teologia della donna
di Emma Fattorini

l’Unità 19.8.13
Quanto vale la creatività e la cultura
di Pietro Greco

l’Unità 19.8.13
Addio individualismo
È il momento di costruire una nuova comunità
di Sergio Labate

l’Unità 20.8.13
Psicologia
Perdonare conviene
Uno studio dimostra che migliora la salute psichica
di Pietro Greco

l’Unità 20.8.13
Il bene comune più importante? È il pensiero
Oggi più che mai, sostiene Roberto Esposito nel suo nuovo saggio, andrebbe rivendicato
di Giuseppe Cantarano

l’Unità 20.8.13
Se muoiono le lingue
Nel giro di cinquant’anni l’India ne ha perse 220
Secondo i ricercatori del Bhasha la maggior parte di quelle condannate a morte appartiene alle comunità nomadi.
Ma la scomparsa di un dialetto è a tutti gli effetti un culturicidio
di Pippo Russo

l’Unità 21.8.13
Togliatti, un padre costituente
di Giuseppe Vacca

l’Unità 21.8.13
Ratzinger e le dimissioni: «Me l’ha detto Dio»
di Felice Diotallevi

l’Unità 24.8.13
Abusi su minori, se la famiglia è un inferno
di Luigi Cancrini


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DA IL FATTO QUOTIDIANO
il Fatto 30.7.13
Salvatore Settis
“Non hanno il diritto di cambiare la Costituzione”
intervista di Marco Filoni

il Fatto 31.7.13
Nadia Urbinati
Meno garanzie per la Carta solo per tenere in vita il governo
intervista di Luca De Carolis

il Fatto 31.7.13
Stefano Rodotà
”Una riforma di parte”

il Fatto 1.8.13
Manganellare Severino
Il Sole, il Foglio e l’Avvenire dei vescovi attaccano il filosofo
Senza diritto di replica
di Silvia Truzzi

il Fatto 2.8.13
Condannato il delinquente

il Fatto 3.8.13
Alessandro Pizzorusso
“Cambiare la Costituzione è pericoloso per la democrazia”
intervista di Marco Filoni

il Fatto 4.8.13
Luciano Canfora
“Uguaglianza davanti alla legge? È diventata roba da comunisti”
intervista di Antonello Caporale

il Fatto 5.8.13
Stefano Bolognini e altri
Psicoanalisi, un manuale di sopravvivenza
di Furio Colombo

il Fatto 6.8.13
Fiom, Rodotà e Zagrebelsky
In piazza per la Costituzione
di Tommaso Rodano

il Fatto 11.8.13
Sergio Cofferati
“Non può toccare la Carta chi è eletto con il Porcellum”
di Salvatore Cannavò

il Fatto 17.8.13
Crociate Radicali, gli stalker non devono andare in carcere
di Bruno Tinti

il Fatto 17.8.13
Crociate Radicali, gli stalker non devono andare in carcere
di Bruno Tinti

il Fatto 21.7.13
Bonino e il caso kazako un silenzio inspiegabile
di Furio Colombo

il Fatto 26.7.13
Cara Bonino, davvero nulla da rimproverare?
di Luisella Costamagna

La Stampa 3.8.13
Intervista a Alma Shalabayeva
“Siamo sempre seguiti. Ci spiano anche in casa”
Incontro con la moglie di Ablyazov a due mesi dal rimpatrio “Ho detto chi ero e chiesto asilo sino all’ultimo. Ma invano”
di Francesco Semprini
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DAL CORRIERE DELLA SERA:
Corriere 25.7.13
La riflessione di Umberto Curi sui moti dell’animo: l’amore cristiano, l’ira di Achille, i falsi razionalisti Cartesio e Spinoza
Guai alla filosofia che non si nutre di passioni
di Corrado Ocone

Corriere 28.7.13
Melandri, il Maxxi e le parole sui compensi
Gian Antonio Stella risponde a Giovanna Melandri

Corriere 31.7.13
Parla lo psicoanalista italiano eletto al vertice degli studiosi freudiani di tutto il mondo
Il virtuale che fa male all’anima
Stefano Bolognini: «Può spingere a un senso di onnipotenza»
di Franca Porciani

Corriere 5.8.13
Filosofia, Platone parla cinese
Congresso mondiale ad Atene. Dove si affermano pensatori e temi asiatici
di Danilo Taino

Corriere 13.8.13
Le nuove frontiere della neuroscienza
La vera coscienza abita nel cervello
di Edoardo Boncinelli

Corriere 20.8.13
Volontà di potenza e rapporto tra scienza e diritto. Il declino delle forme usuali del sapere
Oltre il profitto: il capitalismo domani
Il vero motore dell’economia è ormai la tecnica, destinata al dominio del mondo
di Emanuele Severino

Corsera 22.8.13
La leggenda di Margherita la Pazza
Da Antiochia a Trieste le metamorfosi della santa che si fece strega
di Giorgio Pressburger

Corsera 22.8.13
In «Hannah e le altre» Nadia Fusini incrocia i destini di tre protagoniste della cultura
La forza delle donne (e delle idee) Arendt, Weil e Bespaloff: la luce dell’intelligenza contro le tenebre
di Corrado Stajano

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DA LA REPUBBLICA:
Repubblica 20.7.13
La normalità deviata
di Stefano Rodotà

Repubblica 21.7.13
Il mondo nel 2100
Saremo tutti nigeriani
di Maurizio Ricci

Repubblica 22.7.13
La rivoluzione fragile
Perché le primavere arabe non cambiano il mondo
di Roberto Esposito

Repubblica 23.7.13
Rimozione e pacificazione
di Massimo Recalcati

Repubblica 23.7.13
Dì qualcosa di sinistra
Rodotà: “dignità”, oggi è questa la parola chiave
intervista di Simonetta Fiori

Repubblica 26.7.13
Staino. Indignati ma senza perdere la tenerezza
intervista di Michele smargiassi

Repubblica 27.7.13
Quando le regole cambiano in corsa
di Curzio Maltese

Stampa 27.8.13
Non ci libereremo mai di Parmenide
di Franca D’Agostini

Repubblica 28.7.13
I custodi della Carta
di Salvatore Settis

Repubblica 1.8.13
Inégalité
Così le differenze sociali mettono a rischio la democraziua
di Stefano Rodotà

Repubblica 1.8.13
Marx artista incompreso
Leggere Il Capitale come un poema epico
di Lucio Villari

Repubblica 3.8.13
Dì qualcosa di sinistra
Michela Murgia
Scrivere è fare politica, per questo mi candido
intervista di Concita De Gregorio

Repubblica 4.8.13
Fast Thinking
di Maurizio Ferraris

Repubblica 6.8.13
Così Talete scoprì il teorema della piramide
di Piergiorgio Odifreddi

Repubblica 7.8.13
Fede e Ragione
di Eugenio Scalfari

Repubblica 10.8.13
L’arte del perdono
di Massimo Recalcati

Repubblica 13.8.13
Lo spirito del Libro. L’incontro tra estasi e ragione
Se l’uomo perde l’anima nella Bibbia
di Marco Vannini

Repubblica 13.8.13
L’amico immaginario. L’alter ego infantile
di Massimo Ammaniti

Repubblica 14.8.13
Dì qualcosa di sinistra
Wu Ming
Basta con il politicamente corretto: il conflitto esiste
intervista di Michele Smargiassi

Repubblica 19.8.13
Dì qualcosa di sinistra
Fabrizio Gifuni
Non dovevamo farci rubare anche l’allegria
intervista di Concita De Gregorio

Repubblica 19.8.13
Cervelli schedati
Se la politica è solo controllo, il dilemma del “Progetto Brain”
di Paolo Legrenzi

Repubblica 24.8.13
Dì qualcosa di sinistra
Alberto Asor Rosa
Dobbiamo recuperare il senso di superiorità
intervista di Simonetta Fiori

Repubblica 25.8.13
Bruno Pontecorvo
di Miriam Mafai

Repubblica 27.8.13
De Rerum Natura
L’elogio dell’uomo libero nella bibbia laica di Lucrezio
di Valerio Magrelli

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venerdì 19 luglio 2013

l’Unità 19.7.13
Ma la «luce della fede» non può accecare il Mistero
di Vincenzo Vitiello


LUMEN FIDEI, LA PRIMA ENCICLICA DI PAPA FRANCESCO, L’ULTIMA DI BENEDETTO XVI, riprende il tema, già affrontato da Giovanni Paolo II nella Fides et ratio, per due ordini di ragioni: perché la fede è il problema centrale del cristianesimo in rapporto alla sua radice ebraica, e perché è la risposta del cristianesimo alla crisi del mondo contemporaneo. Le due ragioni sono strettamente legate. Il punto 23 dell’Enciclica ricorda l’episodio biblico narrato in Isaia 7, 9: al re Acaz che voleva far alleanza con l’Impero degli Assiri, per proteggersi dai suoi nemici, il profeta, invitadolo a confidare solo nell’aiuto di Dio, l’ammoniva: «Se non crederete (ta’aminu) non resterete saldi (te’amenu)». Ma nella versione (greca) dei Settanta si legge: «Se non crederete, non comprenderete».
Il Pontefice, nel rilevare la differenza tra i due testi, ne evidenzia insieme l’«affinità»: il «comprendere» di Isaia scrive si riferisce all’agire di Dio, a ciò che dà stabilità alla «vita dell’uomo e (alla) storia del suo popolo». E cos’è la fede se non l’affidarsi a Dio? Il riferimento all’antico spiega il presente. La fede, nell’età di crisi della modernità, e cioè non solo delle ideologie ma più ampiamente del rapporto sapere-potere, è riparo sicuro per l’uomo. Il lumen fidei dà quello che la ragione umana non è in grado di dare, perché viene dall’Alto e dall’Altro: non è la soggettiva presunzione della ragione umana che volendosi universale ha prodotto solo tirannia e guerra, come testimonia il secolo mal definito «breve», dacché non pare affatto sia «passato». La fede, che viene dall’Alto e dall’Altro, che è Amore oblativo, Agape, andando incontro a tutti e a ciascuno, illumina e non costringe. È, pertanto, intrinsecamente plurale spiega il teologo Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, nella sua introduzione-commento all’Enciclica (La Scuola, Brescia). Le braccia della Chiesa di Roma si aprono al mondo. Alla storia, all’uomo e agli uomini. Alle altre fedi religiose. Nulla escludono, con tutti e su tutto dialogano.
Le parole che ricorrono più di frequente in questa Enciclica sono: fede, ragione, Verità, visione. Per leggere «mistero» bisogna andare oltre la metà del testo, e la parola non ricorre che quattro volte, di cui una al plurale: «I misteri della morte, della resurrezione e della ascensione al Cielo» di Cristo (p. 48). Mistero peraltro aperto alla ragione, che con la sua «propria disciplina» è in grado di esplorarne «le insondabili ricchezze». E alla ragione del credente è aperto anche «il segreto più profondo di tutte le cose»: «la comunione divina» (pp. 60-61). Non il Mistero avvolge e compenetra di sé la fede; bensì la fede illumina il Mistero. Ma è luce troppo forte, la luce di questa fede, che si pone sullo stesso piano dell’avversario che combatte. Ha infatti la stessa pretesa arcontica della ragione che accusa di idolatria. L’insistenza sulla fede che o è una o non è fede, rende vana l’apertura alle altre religioni. La stessa alterità di Dio è dubbia, se poi di Dio si dice che è Conoscenza, Potere, Amore. Questa teologia rischia – per dirla con Vico – di Dei Deum se facere: di farsi Dio di Dio. Certo dimentica che Dio è sì Amore, ma non solo Amore: «Ho amato Giacobbe, ho odiato Esaù» (Malachia, 1, 2-3). E non solo l’Antico Testamento parla dell’orghè thoû theoû, dell’ira di Dio, anche il Nuovo: «Non crediate ch’io sia venuto a portare la pace su questa terra; non la pace sono venuto a portare, ma la spada» (Mt, 10.34). Se Dio, come Anselmo, filosofo grande, e santo della Chiesa di Roma, ci ha insegnato non è solo ciò di cui non si può pensare il maggiore, ma è anche ciò che è maggiore di quanto si possa pensare, allora tutto ciò che diciamo di Dio definisce solo noi: i nostri limiti. Che sono tali se ed in quanto non vengono assolutizzati, cioè se ed in quanto riconoscono il Mistero.
È, questa, l’esperienza della fede che non pretende di vedere dalla prospettiva di Dio, ma resta nella sua umana finitezza, particolarmente quando si sente destinataria di un dono che la trascende. Questa fede non può non chiedersi dove termina il dono e dove inizia la responsabilità di chi ha ricevuto il dono. L’accoglienza del dono è altra dal dono o non è pur essa parte del dono? Ha senso parlare di una fede non accolta? Domande antiche che rendono la fede debole, di quella debolezza che Paolo esaltava, e che il Santo di Assisi fece regola della sua vita.
Questa fede debole, il cui lume non splende più della luce di una candela, non accoglie l’altro in sé, non l’abbraccia, non lo stringe a sé, gli vive accanto. Non dialoga con lui, prega accanto a lui, ciascuno con le proprie preghiere, ciascuno volgendosi al suo Dio. Accanto a chi non ha parole di preghiera, né Dio a cui rivolgersi.
Nell’ultima parte dell’Enciclica, ove pure è ancora presente la «fede» nell’unicità della fede, s’avvertono altri toni, risuonano altre parole, emergono altri rapporti: a quello tra fede e verità, fede e visione, succede l’altro, più legato alla fragilità dell’amore umano, il rapporto tra fede e sofferenza, fede e speranza. La speranza che non vede, perché quella che vede non è speranza (Rm, 8.24). A Lampedusa Papa Francesco ha detto «noi non sappiamo più piangere». Sunt lacryme rerum. Se ha da esserci «consolazione», se proprio non sappiamo farne a meno, che almeno sia questa, che spezza ogni cerchia dell’umano.

l’Unità 19.7.13
La storia dell’ultimo Psi e le analogie con l’oggi
di Giunio Luzzatto


ALFREDO REICHLIN (L’UNITÀ DI MARTEDÌ 16) SOLLECITA I DEMOCRATICI A «METTERE IN CAMPO UN PARTITO SERIO, PLURALISTA, ANIMATO DA CORRENTI MA NON DA FAZIONI» e a ricordare, come monito, «la tragedia del Partito socialista», con «i dirigenti che si sputtanano a vicenda con l’idea infantile di costruire così la loro popolarità sui giornali». Chi ha vissuto quella tragedia, e da trent’anni riflette sulla lezione spesso inascoltata che essa dovrebbe dare all’area progressista del Paese, non può che essere pienamente d’accordo.
Occorre però andare oltre, nel ripensamento del passato ed anche nella preoccupata constatazione delle analogie con l’oggi (analogie che Reichlin non esplicita, ma che sono del tutto evidenti). Il passato su cui meditare non è solo il momento finale del Psi, il degrado nella corruzione; il virus del craxismo ha potuto insediarsi e portare il partito alla fine perché le difese immunitarie dell’organismo erano state progressivamente smantellate.
Il primo indebolimento risale al 1964, quando -a pochi mesi dall’ingresso dei socialisti nel governoil timore nenniano circa il «tintinnare di sciabole» (De Lorenzo) indusse a modificare radicalmente il senso della loro partecipazione: non più per fare le riforme, ma per «stato di necessità» (parole che ritornano).
E proprio la presenza nel governo ridusse la forza contrattuale. Quasi tutto il gruppo dirigente si affezionò così rapidamente alle stanze del Palazzo, che i moderati della Dc ebbero buon gioco nell’evitare scelte forti di rinnovamento: compresero che potevano rinviare, edulcorare, mistificare senza che gli alleati ne traessero conseguenze. Il centro-sinistra, che nell’anno 1962 di partecipazione esterna alla maggioranza aveva adottato soluzioni radicalmente riformatrici -nazionalizzazione dell’elettricità, scuola media unica-, si appiattì così nella mera gestione del potere. Vi furono ancora, negli anni 70, riforme che innovarono profondamente la società italiana, ma i socialisti non erano più i protagonisti: i progressi erano essenzialmente il prodotto dei movimenti sorti nel clima dell’ «autunno caldo».
Il Psi aveva cessato di essere quel partito di discussione dal basso che era il meglio della sua tradizione (certo, accanto al peggio che erano le conseguenti tendenze al frazionismo e alle scissioni). Elemento centrale di ciò, la trasformazione delle correnti in centri gestionali del sottogoverno, anche a livello locale, con riferimenti non a idee ma a personalità. Un caso: in Liguria erano istituzionalmente riconosciuti i «demartiniani A» e i «demartiniani B», conflittuali su tutto (nella stessa regione vi sono oggi imbarazzanti liti tra «renziani della prima ora» e nuovi adepti che non riconoscono loro la leadership).
Craxi fu spinto alla segreteria, nel 1976, non sulla base di proposte relative alle politiche da condurre nel Paese, ma sulle parole d’ordine del nuovismo: basta con i vecchi leader, potere alla generazione dei quarantenni. Cadde nel tranello, spiace dirlo, anche una personalità come Riccardo Lombardi, a ciò indotto da collaboratori a parole ultrasinistri come Fabrizio Cicchitto, Gianni De Michelis, Maurizio Sacconi.
Fu addirittura teorizzato che il partito era un fine e non un mezzo: si disse «primum vivere, deinde philosophari», intendendo che il rafforzamento del partito stesso doveva precedere la discussione sulle azioni da compiere. Se il partito è un fine, l’esigenza di farlo, appunto, vivere induce a non sottilizzare circa la correttezza delle modalità con cui a ciò si provvede. La fase finale, la corruzione diffusa, non nasce perciò dal nulla: è il portato della deriva precedente.
Ci si è domandati, ovviamente, come mai la «base sana» non abbia a suo tempo reagito; si è anche parlato di una modifica della stessa composizione del partito, di una «mutazione genetica». Il discorso è complesso, e non si può svolgerlo in poco spazio. Va comunque citato un episodio particolare, peraltro decisivo, che induce a una dura riflessione sul presente; si tratta della tolleranza che si deve avere, o non avere, nei confronti di comportamenti inaccettabili degli alleati. Per salvare un governo i parlamentari del Psi votarono in Parlamento contro l’incriminazione di un democristiano malfattore; le reazioni furono violentissime, con la direzione del partito occupata, ma il gruppo dirigente rimase al suo posto e non cambiò strategia. Da quel momento, cessarono i movimenti di base ma cessò anche il ruolo politico del partito.

La Stampa 19.7.13
Accuse gay al prelato Ior. Ma il Vaticano: complotto
La Santa Sede: manovra per bloccare il risanamento voluto dal Papa
di Giacomo Galeazzi


Bufera sul prelato dello Ior. Dei «trascorsi scandalosi» di monsignor Battista Ricca (un presunto menage gay alla nunziatura in Uruguay nel 2000), il Papa, rimasto in precedenza all’oscuro, «ne è venuto ora a conoscenza e, amareggiato, ne trarrà le decisioni conseguenti», sostiene L’Espresso. «Quanto affermato su Ricca non è attendibile», taglia corto il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi. Di sicuro sulla poltrona-chiave nella banca vaticana è in corso una battaglia senza esclusione di colpi. Crea forti sospetti in Curia la tempistica del caso, esploso proprio adesso che, proprio attraverso il fidato Ricca, Bergoglio sta facendo pulizia allo Ior. Non si tratterebbe quindi di una nomima sbagliata da parte di Francesco ma di un complotto per bloccare quel risanamento delle finanze vaticane che sta cancellando decennali posizioni di potere e affari oscuri.
Ricca, 57 anni, originario della diocesi di Brescia, proviene dalla carriera diplomatica. Ha prestato servizio per 15 anni in nunziature di vari Paesi, prima di essere richiamato in Vaticano, alla segreteria di Stato. Ma ha conquistato la fiducia di Bergoglio in un’altra veste, inizialmente come direttore della residenza di via della Scrofa nella quale alloggiava l’arcivescovo durante le sue visite a Roma e ora anche come direttore della Domus Sanctae Martae nella quale Francesco ha scelto di abitare da Papa. Prima della nomina, al Pontefice era stato fatto vedere, come è consuetudine, il fascicolo personale riguardante Ricca, dove non aveva trovato nulla di disdicevole, però una settimana dopo la nomina Bergoglio sarebbe venuto a conoscenza, da più fonti, di trascorsi di Ricca a lui fin lì ignoti. Il riferimento del settimanale è a presunte relazioni omosessuali nel periodo trascorso alla nunziatura di Montevideo, dove Ricca arrivò nel 1999 dopo aver prestato servizio a Berna. In Svizzera aveva stretto amicizia con un capitano dell’esercito svizzero, Patrick Haari. «I due arrivarono in Uruguay assieme. E Ricca chiese che anche al suo amico fossero dati un ruolo e un alloggio nella nunziatura», cosa che alla fine avvenne, dopo che il nunzio andò in pensione. A detta dell’Espresso «l’intimità di rapporti tra Ricca e Haari era così scoperta da scandalizzare numerosi vescovi, preti e laici di quel piccolo paese sudamericano, non ultime le suore che accudivano alla nunziatura». Anche il nuovo nunzio, il polacco Janusz Bolonek, arrivato a Montevideo all’inizio del 2000, trovò «subito intollerabile quel menage e ne informò le autorità vaticane, insistendo più volte con Haari perché se ne andasse, ma inutilmente».
Nei primi mesi del 2001, scrive il settimanale, Ricca «incappò in più di un incidente per la sua condotta sconsiderata: un giorno, recatosi come già altre volte in un locale di incontri tra omosessuali, fu picchiato e dovette chiamare in aiuto dei sacerdoti per essere riportato in nunziatura, con il volto tumefatto». Poi nell’agosto dello stesso 2001, «in piena notte l’ascensore della nunziatura si bloccò e di prima mattina dovettero accorrere i pompieri, i quali trovarono imprigionato nella cabina, assieme a monsignor Ricca, un giovane». Il nunzio Bolonek chiese l’immediato allontanamento di Ricca dalla nunziatura e il licenziamento di Haari. E ottenne il via libera dal segretario di Stato, cardinale Angelo Sodano. Ricca venne prima trasferito a Trinidad e Tobago e poi richiamato in Vaticano.
Secondo L’Espresso, nonostante il nunzio si sia sempre pronunciato «con severità nei confronti di Ricca, nel riferire a Roma», «una coltre di pubblico silenzio ha coperto fino ad oggi quei trascorsi del monsignore» ed «in Vaticano c’è chi ha promosso attivamente questa operazione di copertura».
"Rivelazioni sull’Espresso «Rapporti intimi durante gli anni trascorsi in Uruguay»"

La Stampa  19.7.13
Cantami o Musa l’Ulisse della società liquida
Nel mito dell’eroe un modello di intelligenza flessibile, alternativa alla rigidità della Ragione, per cavarsela in un mondo rimasto privo di punti di riferimento
di Maurizio Assalto


La nascita di Atena dalla testa di Zeus, in un tripode attico a figure nere del VI secolo a. C. Sotto il trono è raffigurata Mêtis, la sposa che il re degli dèi ingannò inducendola a farsi così piccola da poterla inghiottire
E’ dall’inizio del nuovo millennio che nella riflessione sociologica e nella connessa amplificazione mediatica circola il concetto di «società liquida», secondo la fortunata metafora coniata da Zygmunt Bauman per definire i tratti caratterizzanti della contemporaneità. Viviamo in un mondo incerto e volatile, dove le antiche strutture consolidate etiche, religiose, politiche, economiche, ma anche psicologiche si sono liquefatte, decomponendosi e ricomponendosi infinitamente. Una situazione instabile, precaria, eccitante. Ma non nuova.
All’origine dei tempi, nell’età aurorale dei miti greci, la dialettica solido/ liquido era implicita in varie storie che si raccontavano in quella terra (giustamente) prediletta dagli dèi. Una, in particolare, riguardava proprio il padre Zeus. Prima di accasarsi con la vendicativa Era, il Cronide si era unito in successione variabile a seconda delle fonti con due divinità primordiali, complementari e opposte: Thémis e Mêtis, dotate entrambe di virtù oracolari e utili per consolidare la regalità sul cosmo, divergono per le modalità della loro azione.
Figlia di Gea, la Terra (oltre che di Urano, il Cielo), Thémis dispensava i suoi responsi a Delfi, prima che vi si insediasse Apollo: ed erano responsi categorici, che asserivano il futuro come se fosse il presente, vietavano e comandavano, senza margini di incertezza, facendo riferimento a un quadro prestabilito e immodificabile. Questa divinità che deriva il suo nome da una radice indoeuropea a cui si riconnette il verbo títhemi, pongo [in modo creatore], stabilisco [nell’esistenza] è infatti la patrona dell’ordine costituito e della legge, madre delle Hôrai, le Stagioni, che si succedono con ciclica regolarità (in seguito saranno personificate con i nomi di Eunomía, Díke e Eiréne, ossia Ordine, Giustizia e Pace), nonché delle Moîrai che tessono il destino dei mortali.
Mêtis, figlia di due divinità marine quali Oceano e Teti, presenta invece le proprietà tipiche dell’acqua: priva di una forma definita, instabile, cangiante come il futuro a cui si rivolge, sempre aleatorio e aperto ai rovesci della sorte. Di conseguenza i suoi sono responsi problematici, alla cui realizzazione occorre collaborare districandosi nelle aporie della realtà. E dispiegando quello stesso tipo di ingegnosità implicato nella parola mêtis, un concetto chiave a cui una quarantina di anni fa hanno dedicato uno studio illuminante Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant ( Le astuzie dell’intelligenza nell’antica Grecia, tradotto per Laterza).
Con il termine mêtis, di solito reso (un po’ approssimativamente) con «astuzia», si designa una forma di intelligenza piuttosto complessa, empirica e obliqua, istintivamente impegnata nella girandola caotica del divenire. Parente stretta dell’accadico Enki-Ea signore delle acque dolci nonché della saggezza, in quanto flessibile e tortuoso come l’acqua che scorre nei canali -, Mêtis interviene in quelle situazioni in cui un ordine viene sovvertito, o non esiste ancora, o non può esistere.
Che tutto il reale sia razionale (e viceversa), o almeno razionalizzabile, è un’illusione che dovremmo esserci lasciata alle spalle da tempo. L’idea che le contraddizioni siano destinate a conciliarsi nella sintesi dialettica poteva andare bene ai tempi di Hegel, e anche più di recente, quando ancora la Ragione si piccava di procedere per vie rettilinee a tenere insieme il tutto, ma appare drammaticamente fuori del tempo nel mondo tumultuoso dei risorgenti fondamentalismi, della globalizzazione spiazzante e della rivoluzione digitale che rimodella di continuo i nostri confini. Ed è qui che può tornare utile l’antica Mêtis, divinità fluida, ritorta, subdola, capace di mille trasformazioni per cavarsi d’impaccio: i caratteri contro i quali deve impegnarsi a fondo Zeus quando vuole farla definitivamente sua.
Avendo appreso che dalla sua sposa sarebbe nato un figlio destinato a spodestarlo (ripetendo così quel che era avvenuto nella successione da Urano a Crono e poi da Crono a Zeus), il signore dell’Olimpo, quando Mêtis era gravida di Atena, «ingannando il suo cuore con parole astute, la inghiottì nel suo ventre». Esiodo, a cui dobbiamo la versione primaria, al riguardo non dice di più. Da uno scolio al verso 886 della Teogonia sappiamo però come andarono le cose: Zeus raggirò la poveretta inducendola a farsi piccola, e quando fu sufficientemente piccola se la ingoiò. Mêtis è dunque vittima della sua stessa polimorfia: come accade a Periclimeno nel combattimento con Eracle, a Teti opposta a Peleo, a Proteo di fronte a Menelao, a Nereo ancora con Eracle.
Riproducendo un motivo tipico del folclore favolistico, in tutti questi casi una creatura di ascendenze marine è sfidata dall’eroe di turno a dare prova delle sue capacità metamorfiche, trasformandosi in leone, serpente, maiale, ma anche acqua e fuoco, fino al punto in cui assume una forma così minuscola o così maneggevole da poter essere domata. L’importante, per il suo avversario, è cingerla con una presa salda, ad anello, e mantenerla ferma in tutto il ciclo delle trasformazioni: non mollare mai un monito valido in ogni epoca come unico modo per avere ragione di una realtà molteplice e sempre mutevole, per conferire un precario assetto di solidità a ciò che è costitutivamente liquido.
Una volta bloccata, ricondotta a una forma(temporaneamente) definita, la divinità polimorfica è disposta a rivelare ciò che sa, trasferendo la sua mêtis al vincitore. Ma il rapporto degli uomini, sia pure eroi, con questo tipo di intelligenza astuta è sempre oscillante. SoltantoZeus, che ha inghiottito la sua sposa facendone un proprio attributo permanente, e divenendo per definizione il metíeta omietióeis, può avere con essa un rapporto non puramente accidentale. Per tutti gli altri è diverso. Lo stesso Prometeo, che gareggia in inganni con il Cronide, alla fine inevitabilmente soccombe perché egli è bensì aiolómetis, di agile ingegno, e ankylómetis, di ingegno tortuoso (così in Esiodo), ma non è tutt’uno con quella prerogativa. E anche Ulisse, l’incarnazione dell’astuzia, è qualificato da Omero come polýmetis, dotato di molta mêtis (e altresì come polýtropos epolyméchanos, ricco di espedienti), ma non possiede tutta la mêtis del mondo, che se ne sta ben chiusa nel ventre di Zeus.
L’eroe dell’ Odissea resta tuttavia il massimo a cui un essere umano può tendere, e come tale un modello che si può riproporre in tempi come i nostri in cui sembra di nuovo di dover attraversare un pelago ignoto e denso di insidie. Quando vengono meno (si liquefano) i punti di riferimento e la linea della costa scompare dall’orizzonte, quando si naviga «sul mare color del vino verso genti straniere» che hanno codici diversi dai nostri, come quelle incontrate da Ulisse nel suo nóstos, quando intorno tutto cambia e non si riesce a ritrovare la propria Itaca, allora non resta che riaggiustare di continuo la rotta decifrando le stelle, i venti, le correnti.
Indovinare, tentare, congetturare, confrontare: nel vocabolario della mêtis ritornanoi verbi che qualificano la condotta del marinaio, come pure quella del medico posto di fronte alla malattia o del politico che cerca di districarsi tra i problemi della cosa pubblica. Se la presa è salda, come quella di Menelao con Proteo, se si ha la forza di non mollare, come Ulisse, anche la realtà più inafferrabile e cangiante diventa per qualche tempo abitabile dall’uomo. Poi riprenderà a cambiare, e occorrerà di nuovo, empiricamente, ingegnarsi. È tutto quello a cui si può ambire, fallite le troppo audaci costruzioni della Ragione. Un invito alla misura ( métron, in greco, che non a caso ha lo stesso etimo di mêtis ). E anche, forse, una lezione di riformismo. “Zeus, re degli dèi, per prima prese in sposa Meti, che sa più di tutti gli dei e degli uomini mortali. Ma quando costei la dea glaucopide Atena fu sul punto di partorire, allora ingannando il suo cuore con parole astute, la inghiottì nel suo ventre dietro i consigli di Gaia e di Urano stellato. Così ambedue l’avevano consigliato perché il regale potere nessun altro avesse [... ] Esiodo, Teogonia, vv. 886-893”

La Stampa  19.7.13
Bronte 1860, c’era Nelson alle origini del massacro
Una storica inglese ricostruisce la strage di contadini nel feudo donato 61 anni prima all’ammiraglio
di Masolino D’Amico


Nel 1860 il paesino etneo di Bronte era tra i luoghi più depressi di tutta la Sicilia, ma quando, incoraggiati dalle notizie dello sbarco dei Mille, i contadini affamati si provarono a occupare le terre, la loro ribellione fu sanguinosamente repressa dagli stessi garibaldini, pronti a schierarsi con l'ordine costituito. L'episodio è stato rievocato, più o meno polemicamente, più volte, anche in una pellicola di Florestano Vancini del 1972 ( Bronte, cronaca di un massacro ), che la Rai dopo averla commissionata come serie di tre puntate mandò in onda una volta sola, in veste ridotta e in un giorno diverso da quelli in cui abitualmente si trasmettevano film. Oggi il libro di una storica inglese, Lucy Riall Under the Volcano Revolution in a Sicilian Town (Oxford University Press) ricostruisce con eccellente documentazione la vicenda, i cui antecedenti e il cui seguito sembrano istruttivi almeno quanto il fatto stesso.
Tutto ebbe inizio molti anni prima del 1860, addirittura nel 1799. In quell'anno re Ferdinando III di Sicilia, IV di Napoli e I delle Due Sicilie -, minacciato dall'avanzata delle truppe francesi, fuggì a Palermo a bordo della nave da guerra dell'ammiraglio Nelson; e una volta tratto in salvo ricompensò grandiosamente il suo salvatore nominandolo duca di Bronte e regalandogli in quel luogo una ampia tenuta, che comprendeva il paesino stesso e il convento in disuso di Maniace. Nelson non vide mai il suo feudo, ma prima di morire a Trafalgar fece in tempo a vagheggiare di stabilirvisi un giorno con la sua amante Lady Hamilton. Il dono passò poi ai suoi discendenti Bridport, che, pur continuando a tenersi alla larga dal luogo, si fregiarono del titolo. A quanto pare «Bronte» suonava bene; così quando si trasferì in Inghilterra per farvi carriera un oscuro ma ambizioso parroco irlandese cambiò proprio in «Bronte» il suo cognome poco nobile si chiamava Patrick Brunty scrivendolo con una dieresi sulla e finale per garantirsi che fosse pronunciato bisillabo; ed è come Brontë che le tre grandi romanziere sue figlie diventarono famose.
Occupando le terre di Bronte, i contadini del 1860 reagivano dunque a un caso di assenteismo ancora più clamoroso di quello vigente in altri latifondi: qui i proprietari erano addirittura stranieri che nessuno aveva mai visto. Ma l'Inghilterra era una potente nazione da tenersi amica, tanto più in quel momento. Così a reprimere la sommossa fu mandato il più energico e il meno scrupoloso dei conquistatori, ovvero Nino Bixio. La Riall lo tratta meglio di altri cronisti, attribuendogli anche un certo rammarico per l'azione compiuta, ma non tace sui suoi metodi spicci, che comportarono la fucilazione di cinque insorti scelti senza troppo discriminare (tra loro c'erano lo scemo del villaggio e l'avvocato liberale Niccolò Lombardo, che aveva tentato di calmare le acque).
Dopodiché Bronterimase a disposizione dei suoi lontani e invisibili padroni inglesi ancora per un altro secolo. Solo negli anni 1930 il quinto Duca si trasferì sul posto e tentò di impiantarvi un'attività; D. H. Lawrence, che lo incontrò durante il suo viaggio in Sicilia, lo descrisse come un cretino. Né lui né i suoi successori comunque si mescolarono mai alla popolazione locale. Da ultimo, nel 1969, lo Stato italiano acquistò la proprietà. Oggi il latifondo è un parco pubblico, e Bronte si autodefinisce non senza fierezza la «capitale mondiale del pistacchio».

Corriere 19.7.13
Umberto Veronesi
«Si sta annullando la differenza tra generi»
intervista di Mario Pappagallo


«Credo che una delle possibili cause di questo fenomeno sia antropologica e risieda nel cambiamento dei ruoli familiari e sociali, che nel tempo ha prodotto una modificazione nella stessa biologia degli organismi». Umberto Veronesi, direttore scientifico dell'Istituto europeo di oncologia e soprattutto attento osservatore dell'evoluzione (nel bene e nel male) dell'umanità e dell'ambiente in cui l'uomo vive e sopravvive, da tempo parla di un futuro tendente alla «parità» anche ormonale dei generi. In realtà il calo della fertilità maschile non è una novità: da 40 anni si osserva in Occidente una riduzione progressiva degli spermatozoi e della loro vitalità.
Una delle cause, per Veronesi, è socio-evoluzionistica. Che cosa accade?
«Se un uomo deve alzarsi al mattino per cacciare la preda che fornirà cibo a sé e ai suoi, se deve uccidere, appostarsi, inseguire, il cervello comunica i suoi bisogni aggressivi all'ipofisi, che stimola altre ghiandole tra cui le gonadi: da qui la produzione di molti ormoni maschili, che a loro volta creano spermatozoi. Se invece lo stesso uomo trascorre la giornata in ufficio, arriva a casa, culla il figlio e aiuta nei lavori domestici, la sua ipofisi riceve meno stimoli e giorno dopo giorno i testicoli si "addormentano"».
Lo stesso esempio, rovesciato, si può fare per la donna e la produzione di ormoni femminili?
«Certo. La donna oggi deve sviluppare aggressività, fare carriera, comandare persone, assumersi responsabilità, competere con gli uomini, sopportare doppi e tripli ruoli, che soffocano la sua femminilità. Il risultato è che le donne affrontano la prima gravidanza in età più avanzata e appaiono sempre meno femminili, socialmente e biologicamente».
Quindi, mascolinità e femminilità verso la parità. Con quali conseguenze?
«Si sta attenuando la polarità che è all'origine del fenomeno dell'attrazione in natura: i poli opposti si attraggono, quelli uguali si respingono. Inoltre fino a 2000 anni fa l'umanità era dominata dall'angoscia dell'estinzione. L'ossessione per la discendenza si percepisce bene leggendo la Bibbia: la sterilità era il peggiore dei mali e qualsiasi cosa era giustificata pur di procreare, dal tradimento fino all'incesto. Oggi invece la nostra ansia è la sovrappopolazione e la spinta sociale è alla limitazione delle nascite. E i fenomeni demografici influenzano la biologia. C'è un legame profondo fra mente, assetto ormonale e sessualità».
Il tutto si traduce anche in un cambiamento culturale...
«Il risultato dell'influenza culturale sulla sessualità è sotto i nostri occhi: omosessualità e bisessualità sono in aumento costante, pur considerando una maggiore libertà a dichiarare una sessualità diversa o più ampia rispetto a pochi decenni fa. Sono in aumento anche i cambiamenti di sesso, quasi sempre a favore di quello femminile».
Influenze sociali e culturali, va bene. Ma cause biologiche non vi sono? L'ambiente non incide?
«Il delicato meccanismo di produzione di spermatozoi può venire alterato anche da altre interferenze di tipo ormonale. Obesità e sovrappeso, per esempio, sono fattori negativi perché le cellule del grasso favoriscono la produzione di estrogeni, i principali ormoni sessuali femminili. I quali possono essere anche contenuti in alcuni cibi come la carne, perché utilizzati per accelerare lo sviluppo e l'aumento di peso negli animali d'allevamento».
Che fare dunque? Si può evitare il sovrappeso, ridurre il consumo di carne, ma sarebbe antistorico tornare ai modelli di vita di oltre un secolo fa, quando i ruoli di maschio e femmina erano ben distinti e la polarità era fortissima.
«Un ritorno al passato è improponibile. L'omologazione dei generi è un fenomeno positivo per l'umanità perché l'entrata in scena della donna con ruoli sempre più strategici non può che portare ad un mondo migliore, più giusto e più pacifico. Sta alla scienza il compito di contribuire alla risoluzione del problema dell'infertilità, come sta avvenendo grazie agli studi sulla fecondazione assistita, oggi sempre più necessità sociale. Ma la scienza non va ostacolata per ragioni ideologiche o di principio».
Un consiglio alle istituzioni, ai politici?
«Direi un dovere. Quello di lasciare ai nostri giovani, che sempre di più avranno il problema della sterilità, leggi che li aiutino a procreare. Altrimenti si corre il drammatico rischio di un futuro senza bambini».

Corriere 19.7.13
L'ultimo segreto di Moravia. L'ispirazione viene dall'altrove
di Giogio Montefoschi


Parecchi anni fa, qualcuno alla radio ebbe l'idea di fare una trasmissione su Roma, invitando a confrontarsi uno scrittore anziano che di Roma aveva scritto molto, avendo ambientato quasi tutti i suoi romanzi in questa città, e uno scrittore giovane, anch'egli romano, indirizzato in un medesimo percorso. Lo scrittore «anziano» era Moravia; quello «giovane» ero io.
Non ricordo che dicemmo, in quell'ora di confronto, sulla nostra città. Ricordo, invece, che uscendo sottobraccio su via Asiago, dissi a Moravia — che, gentilmente, mi aveva chiesto cosa stessi facendo — che ero a un punto morto del mio nuovo romanzo: nel senso, che non riuscivo ad andare né avanti né indietro. Sotto le folte sopracciglia, negli occhi dello scrittore anziano (come sempre gli accadeva quando si preparava a dare un suggerimento imprevedibile, o a esporre un'idea ugualmente imprevedibile) passò un lampo. «Vuole un consiglio?», mi disse. Risposi di sì. «Faccia un viaggio», disse, «se possibile esotico. Ma non nel senso dell'esotismo orientale; esotico, nel senso di scegliere un posto che non conosce affatto, un luogo straniero. E vedrà che, al ritorno, vedendolo con una mente nuova, farà subito ripartire il romanzo che ora sta fermo». Accettai il consiglio e potei constatare che aveva ragione.
Moravia dava questi suggerimenti agli amici, perché era stato, e continuava a essere anche negli ultimi anni della sua vita, un grande viaggiatore. Oriente, America, Medio Oriente, Russia, Africa, Europa: fin da giovanissimo aveva girato mezzo mondo; tornava nei posti che aveva visitato molti anni prima per vederne i cambiamenti; non finiva mai di trovare un pretesto per lasciare la sua casa in Lungotevere delle Vittorie, affacciata sulla pigra corrente giallastra del fiume, davanti ai palazzi in cui abitavano, o avevano abitato, gli inquieti borghesi dei suoi personaggi, e volare in Mongolia, o in un Paese africano.
Del viaggiatore come tale, aveva la curiosità; il desiderio di capire; la voglia di confrontare i pensieri che si portava da casa con le realtà nuove, o diverse da quelle che aveva immaginato, in cui sapeva immergersi; infine, una grande disponibilità alla fatica, e a sopportare tutti i tipi di disagi e a confrontarsi pazientemente — magari leggendo per dieci giorni romanzi francesi, in Africa, su un battello conradiano — con i momenti di noia che in un viaggio sono inevitabili. Del viaggiatore-narratore — come presto poterono apprezzare i lettori del «Corriere» — possedeva il dono di una scrittura molto «materica» (anche quando parlava di idee), sempre legata alla fisicità dei luoghi e delle persone; e il raro istinto che ti porta a non trascurare alcun dettaglio, bensì, al contrario, di scorgere, in un dettaglio apparentemente insignificante, il Tutto. Era anche un narratore orale formidabile, se ne aveva voglia. Un paio di settimane prima che morisse, a una cena, ci incantò con i suoi racconti — essendo di un umore smagliante.
Bompiani ha da poco ripubblicato in edizione economica, con la cura attenta di Luca Clerici, Un mese in Urss: il resoconto di un viaggio compiuto nella ex Unione Sovietica, dopo la morte di Stalin e il famoso discorso di Kruscev al XX Congresso in cui si denunciavano i crimini del dittatore, nel 1958. Ad Alain Elkann che, più di trent'anni dopo, nel bel libro scritto a quattro mani sulla sua vita (Vita di Moravia, Bompiani) gli chiedeva quali fossero state le sue impressioni sulla Russia, disse che il viaggio era stato «sterminato»; che aveva visto «una grande rivoluzione, ma al tempo stesso povertà e squallore»; che la sua guida, un ometto gentilissimo, era (come poi aveva scoperto) del Kgb; che la grande ambizione della Russia era quella di assomigliare un giorno all'America; e che, al ritorno, aveva scritto un libro intitolato Un mese in Urss, nel quale sostanzialmente diceva «che il governo sovietico aveva interesse a non promuovere l'industria leggera perché aveva bisogno dei risparmi dei lavoratori per poterli spendere per l'industria pesante e per gli armamenti».
La rilettura di Un mese in Urss (che Bompiani accoppia, in libreria, a un altro resoconto di viaggio, questo del 1967, La rivoluzione culturale in Cina), offre — oltre alle inevitabili considerazioni legate al trascorre del tempo e al mutamento della situazione politica e sociale di quel Paese «sterminato» — momenti di grande suggestione e intensità emotiva, frutto dell'attenzione, dello sguardo di Moravia, e delle sue doti di romanziere. Basterebbe citare la descrizione della miseria del palazzo di Leningrado in cui per qualche tempo visse Dostoevskij (amatissimo da Moravia) e poi della probabile casa della usuraia: veri e propri luoghi, «anonimi», della compressione psicologica, del furore ideologico, del rancore e della conseguente violenza. Oppure la descrizione, sulla Piazza Rossa, dell'attesa per visitare il mausoleo con le tombe di Lenin e di Stalin, in una giornata di pioggia, in mezzo a una folla spenta di impiegati e contadine con un pollo nella borsa (e poi quei volti marmorei e gialli, uno raffinato e orientale, l'altro grossolano, col naso carnoso e ricurvo, «la bocca insieme diffidente, brutale, scontenta e falsamente bonaria... la bocca di un uomo che brontola, che minaccia, che finge e che sospetta»). Oppure, le descrizioni così tattili degli ambienti chiusi (locande-alcova come quella in cui amoreggiavano Dimitri Karamazov e Gruscenka, stanze d'albergo, interni d'aeroporto: con la loro uniforme cupezza, i pesanti tendaggi, le tovagliette e i centrini, e l'uniforme pessimo gusto), e quelle delle sconfinate foreste, delle sconfinate steppe, dei panorami monotoni e vuoti custodi a tratti della desolazione, a tratti della malinconia, a tratti di un più misterioso sgomento.
È proprio un bel libro, che consiglio, Un mese in Urss. Il capitolo più bello, e più rivelatore, è il quinto, intitolato «Sterilità del dolore». È un capitolo nel quale si dicono svariate cose intelligenti e profonde in merito al dolore umano che riguarda tutti. Ma che fa capire a quale intensità sia arrivato il dolore in Unione Sovietica nel periodo che va dalla Rivoluzione alle due Guerre mondiali e al secondo dopoguerra; a quali quantità numeriche e fisiche (quante decine e decine di milioni di morti: prima per Hitler, dopo per Stalin) si appoggi questo dolore; come sia incommensurabile quel dolore (e incomprensibile a chi, nella medesima epoca viveva e certo anche soffriva, ma in altre regioni europee); come sia stato tragico vivere straziati da tutto quel buio, da quell'immenso lutto, fino a diventare, per necessità, sterili e indifferenti al dolore.

Corriere 19.7.13
Il tempo degli ultimi, eredità futura
Sono loro i veri eletti «al Regno dei cieli» I commenti di Gianfranco Ravasi e Adriano Sofri
di Armando Torno


L'arte occidentale ha rappresentato Gesù senza requie, come nessun altro personaggio della storia. Lo ha dipinto, scolpito, adattato agli stili inseguendolo in tutte le fasi della sua vita. Forse l'immagine più frequente è stata quella di evocarlo come un rabbi, un maestro. Beato Angelico, in un'opera conservata nel convento di San Marco a Firenze, si concentra sulla figura terrena del Figlio di Dio: l'unico richiamo al cielo è nella mano destra indicante l'alto e, allo stesso tempo, quel suo gesto attira l'attenzione degli ascoltatori. I discepoli lo circondano quasi fossero gli adepti di un filosofo greco. Anzi, l'artista li dipinge di spalle, in modo che essi stessi osservino la scena: in questo egli rende discepolo anche chi guarderà la sua opera nei secoli a venire, violando le regole dello spazio e del tempo. Il paesaggio è roccioso. L'affresco è dedicato al sermone della montagna, quando Gesù parla delle beatitudini.
Probabilmente il Beato Angelico toccò il vero con quelle figure, giacché tutti coloro che vedranno la sua opera non riusciranno più a dimenticarla. Per esempio, il danese Carl Heinrich Bloch cercò anch'egli una soluzione per dar forma alle parole del sermone — attendeva ai dipinti della Cappella del Castello di Frederiksborg, tra il 1865 e il 1879 — ma non riuscì a far altro che riprendere quel modello aggiungendovi una gestualità più solenne, coinvolgendo gli ascoltatori sino a offrire a taluni presenti volti estasiati.
Nella realtà, se si dovesse fissare geograficamente il luogo dove avvenne il celebre discorso, si potrebbe ricordare la zona di Tabqa (epta pegon, sette fonti) a circa due chilometri da Cafarnao. È ricca d'acqua, verdeggiante; è desertica e bella al tempo stesso. I testi che parlano dell'avvenimento si trovano in due vangeli: in Matteo (5,1-12) e Luca (6,20-23). Nel primo la scena è rappresentata su un'altura: «Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli»; nel secondo si ricorda che Gesù «si fermò in un luogo pianeggiante» e che «c'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone». Le due indicazioni non mutano tuttavia le coordinate geografiche: il Signore può aver parlato su un colle o in mezzo a quell'oasi, ma entrambe le esposizioni — osserva un biblista come Gianantonio Borgonovo — «risalgono quasi sicuramente a una tradizione che localizzava in quell'ambiente la caratteristica predicazione di Gesù in Galilea». E aggiunge: «Le parole di Gesù esprimono la riuscita dell'esistenza di colui che vive secondo la Torah: è un'idea presente nei Salmi. Il Figlio di Dio la riprende e la applica alla figura del discepolo».
Osservazioni, queste ultime, che ci aiutano a comprendere la distanza tra il messaggio evangelico e la cultura del tempo. Matteo mette in evidenza che sono beati «i poveri in spirito», «gli afflitti», «i miti», coloro «che hanno fame e sete della giustizia», «i misericordiosi», «i puri di cuore», «gli operatori di pace», «i perseguitati per causa della giustizia». Aggiunge nella parte finale: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia». Di contro, per il pensiero antico la beatitudine è il sommo bene che soddisfa adeguatamente la nostra volontà. Varrone, riprendendo le dottrine platoniche e aristoteliche, annovera più di trecento soluzioni per identificare questo stato, il medesimo che per i maestri greci cresciuti sotto l'Acropoli di Atene andava coniugato con la felicità. Non a caso Platone sosteneva che essa si può trovare solo nella contemplazione della suprema idea, quella del bene; per questo noi la troveremo nell'altra vita (Aristotele non sarà d'accordo e dirà che la vera beatitudine è solo di questa nostra esistenza). Ma, per tornare al testo evangelico, Luca offre alcune varianti. Dopo aver ricordato che «tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti», sono ricordati «i poveri», «voi che ora avete fame», «voi che ora piangete», «voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v'insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell'uomo». Dopo di che le beatitudini lasciano spazio — dal versetto 24 del capitolo 6 — agli ammonimenti, che cominciano con queste parole: «Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione». Il versetto 27 allarga ulteriormente il discorso, chiudendo anche i ricordati ammonimenti: «Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano».
La differenza tra i due vangeli, oltre che per il numero delle beatitudini, va cercata nel fatto che Luca interpreta sia l'aspetto positivo che il negativo, ovvero quello di coloro che non seguono lo stile gesuanico; Matteo, invece, ne sceglie uno assoluto che sottolinea il rapporto con i discepoli, in quel momento davanti al Signore. Aggiungiamo che Matteo elenca otto beatitudini più una, Luca quattro (e altri quattro ammonimenti). Va altresì ricordato che la prima di Matteo, ovvero «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (5,3), ha fatto scrivere a taluni Padri della Chiesa — per esempio a Tertulliano in Adversus Marcionem — che in essa sono racchiuse tutte le altre. Ma qui si apre una vasta letteratura. Sant'Ambrogio, per fare un altro esempio, nella sua Esposizione del Vangelo di Luca riallaccia le quattro beatitudini di questo testo alle quattro virtù cardinali; Bernardo di Clairvaux in un suo sermone per la festa d'Ognissanti vede nelle beatitudini di Matteo altrettante virtù, disposte in gradazione non gerarchica ma cronologica rispetto all'esperienza ascetica dei monaci. In tal caso la volontaria paupertatis vilitas è rimedio alla superbia, la mansuetudine o obbedienza sana dalla ribellione del peccato e così di seguito. È difficile seguire gli infiniti influssi delle parole di Gesù, perché si dovrebbe passare dalla Divina Commedia ai grandi romanzi che hanno fatto la letteratura, da filosofi come Pascal a mistici come Meister Eckhart. Dostoevskij nei Demoni, scrivendo che «gli uomini sono cattivi perché non si accorgono di essere buoni», ha forse ripensato taluni temi delle beatitudini. Ma più di ogni altro argomento è stata la povertà a far riflettere. Santa Teresa di Gesù ha scritto ne La via della perfezione che «i veri poveri non fanno rumore». Anche se le parole del Cristo continuano a urlare nelle coscienze.

Corriere 19.7.13
Se il male per il male è una consuetudine
di Guido Ceronetti


La Violenza, che sta sempre più flagellando i vivi, è presieduta da qualche entità divina? È una vendetta di morts malfaisants, di malamente uccisi che non oziano mentre le loro famiglie si sono già affrettate a dimenticarli o stanno aspettando sentenze defocalizzate di tribunali? Oppure c'è una violenza di demoni incarnati, mascherata da ideologie politiche o religiose, come li vedi all'opera nel capolavoro di Dostoevskij I demoni, praticata con metodo e secondo topografie e cadenze che confondono? Dall'11 settembre 2001 chi ha un pensiero si fa domande senza fine sugli scopi di una violenza che appare frantumatissima — pur essendo una sola. Unica è la faccia della violenza e non c'è un capo né una congiura. Qualcuno muove questo numero incalcolabile di fili? Sparare a una donna, stuprarla, bruciarla ancora viva e implorante, è davvero un atto spontaneo e individuale? Mi turba un verso di Giorgio Seferis: «Chi è che dietro di noi ci ordina di uccidere?».
Una bomba che fa strage durante una maratona pacifica ha un movente plausibile? E puoi stanare un vero movente per una strage nell'impulso a collocare una bomba in un autobus che porta ragazzine che tornano da scuola? Può valere la demenziale pretesa che, come femmine, a scuola non ci devono andare? Ha senso di fronte a tali enormità criminali, veri oltraggi e straniamenti del logos umano, abbozzare tranquillamente con gli autori e i mandanti una trattativa di pace? L'unica massima giusta a me pare quella del saggio La Fontaine: «Bisogna fare ai malvagi una guerra perpetua» (Les loups et les brebis). Non sono gli stessi che hanno fatto a pezzi i Buddha millenari di Bamiyan? Viene davvero dall'uomo il peggio dell'ottenebramento umano? Possiamo constatare un oscuro bisogno di fare e veder soffrire: l'arma da fuoco, quando lo sparo non è a bruciapelo, priva l'assassino di una parte dello spettacolo di cui invece non avrà perso nulla chi colpisca a morte con un'arma impropria.
Eterodiretto va bene, è un inserire l'illogico in uno schema apparentemente logico, ma la domanda vive, rimane: i fili chi li muove? Il piacere di fare del male è una spiegazione psicologica sufficiente? Io, come Isaia cap 21: «Mi torco nel non capisco», ma non posso buttare la penna, con cui mi ostino a scrivere, nelle pattumiere infinite dell'impossibilità di capire.
Va osservato, facendo anatomia patologica del crimine, che mentre la guerra ha finito per perdere ogni connotazione di fisicità violenta tra uomini (e dunque dell'offensore militare che produce nei corpi degli avversari squarci sanguinosi), l'operare di chi uccide si è fatto più ravvicinato, più selvaggiamente sbranante, più formicolante di disumano.
Non è da oggi che è cominciata questa ascesa inaudita nel male — c'è stato Pietro Maso, ci sono stati Erica e Omar, le Intifade, Breivik, Srebrenica — ma si è dissolto lo steccato separatore: il crimine è evento pubblico, gode di scoprirsi e paradossalmente di essere scoperto, trasformato in spettacolo; il timore della pena non trattiene più nessuno, e l'assassino può con certezza contare su cori sterminati di approvazione provenienti dalla Rete. Che si faccia del male per il solo scopo di farlo non è nuovo sotto il sole; è nuovo l'assurgere del crimine a una realtà epidemica, a una specie di programmi d'ombra di calendario culturale del vivere urbano. Quaerebam unde malum et non erat exitus («Mi chiedevo donde il male, e non sapevo darmi risposta», Sant'Agostino).

Repubblica 19.7.13
L’amaca
di Michele Serra


Il “senso di responsabilità” del quale il presidente Napolitano è il più autorevole e tenace depositario è un sentimento importante e rispettabile. Ha però un limite: non riconosce doveri fuori da se stesso. Non tollera smentite, non conosce eccezioni. Se — per esempio — la solidità di un governo viene considerata coincidente con il “senso di responsabilità”, allontanare un ministro che si è reso colpevole di una paurosa lesione del diritto democratico diventa, automaticamente, cosa contraria al “senso di responsabilità”. La vecchia destra comunista — fucina di notevoli personalità politiche, da Amendola a Chiaromonte allo stesso Napolitano — è stata, del “senso di responsabilità”, formidabile latrice. Ma ogni impennata etica, ogni accelerazione sociale, ogni eccessiva movimentazione del paesaggio politico veniva (e viene ancora) vista come una pericolosa, incontrollabile incrinatura del “senso di responsabilità”.
Il caso Alfano non è il primo né l’ultimo nel quale viene da domandarsi quante giuste cause, quanti sacrosanti obiettivi, quanti atti di coraggio, quanti germi di novità sono stati scannati come agnelli sacrificali sull’ara del “senso di responsabilità”.

Repubblica 19.7.13
Dì qualcosa di sinistra 3
Il ’68, la letteratura, l’impegno Lo scrittore e la “sua” politica: “Se non ne vedo una degna di questo nome, me la faccio da me”
Stefano Benni
Non adagiamoci sulla retorica, sogniamo l’imprevedibile
di Simonetta Fiori


PUTZU IDU (Oristano) «No, ancora con questa storia della fotografia con Grillo sulla spiaggia?». L’amaca su cui è steso Stefano Benni acquista una preoccupante oscillazione, inequivocabile indizio d’una domanda inopportuna. «Allucinazioni giornalistiche. I grillini mi hanno accusato di essere una spia di Bersani. Il Pd di essere una spia di Grillo. Ho mandato al diavolo gli uni e gli altri. Perché l’unica appartenenza che riconosco ha a che fare con quel signore là». Quel “signore là” è il pescatore di aragoste immortalato in un film di Sabina Guzzanti. Ex operaio della Fiat, fondatore di una cooperativa che ha modificato l’economia sopra lo stagno di Cabras, Gianni Usai lo guarda con cristiana rassegnazione. Da trent’anni, a luglio, hanno l’abitudine di dividere la casa di Putzu Idu, chilometri di spiagge nell’istmo che conduce a Capo Mannu. «Sono un anarcocomunista “usaista”, ecco cosa sono. Non bisogna dire cose di sinistra, bisogna farle. Sembra un passaggio facile, ma succede poco, quindi è qui la differenza».
Benni, però non si arrabbi.
«Mi arrabbio sì. Perché se un amico come Beppe ti chiama, io vado. Abbiamo una storia antica di collaborazione. Ma poi le nostre strade si sono separate. Io ideologo di Grillo? Ma dai. È uno che pensa con la sua testa. Parliamo, litighiamo e lui fa il contrario di quello che gli dico. È da anni che non mi dà retta. Hanno scritto anche che stavo per diventare ministro. Sicuro, anzi, volevo metà del Granducato di Sardegna».
Su cosa litigate?
«Insieme abbiamo fatto per tanti anni controinformazione, un lavoro bellissimo che resta. Poi non gli è bastato più. Ha voluto far altro. Un movimento politico. Io non ero d’accordo, ma lui l’ha fatto. Naturalmente rispetto la sua scelta. Ma io non ho mai desiderato di entrare nel suo movimento né in nessun partito. Se non vedo intorno a me politica degnadi questo nome, la politica me la faccio da me».
Cosa vuol dire?
«Non posso fare a meno di fare dieci o quindici cose in cui credo profondamente. Le attività con gli immigrati di Harambe, il gruppo Lupo, i seminari per chi lavora con i bambini o nelle carceri, i seminari per giovani attori. Questo è l’agire politico, cosa molto diversa dal sondaggismo e dal gigantesco chiacchiericcio mediatico. In questo agire quotidiano mi ritrovo insieme con persone che praticano l’intelligenza, la sensibilità, il sentimento di responsabilità che possono essere ricondotti a una tradizione di sinistra. Molti continuano a dire: io sono di sinistra. Non è mai bastato, ma ora non basta più che mai».
Negli ultimi anni Vittorio Foa insisteva sull’importanza dell’esempio.
«Sì, l’esempio è fondamentale. Giornalisticamente io non ho avuto maestri, ma esempi. Come Valentino Parlato, Rossana Rossanda e Luigi Pintor. Più che le idee, mi sembrava importante il modo in cui era nato ilManifesto:senza padroni. Un atto di libertà. Quanto agli articoli del giornale, metà non li capivo e metà non ero d’accordo. Ero un contadino letterato, che sapeva a malapena fare un po’ di satira».
Al Manifestoè arrivato tardi.
«Non giovanissimo. Venivo dal Sessantotto, un momento di grande fermento che io avevo attraversato in modo molto critico. Ero il compagno che leggeva Pound e Céline, dunque visto con grandissimo sospetto. Non sopportavo il fatto che ci potessero essere libri da leggere e libri da non leggere. Vissi quegli anni piuttosto appartato».
Fu quello il suo incontro con la sinistra? O c’era una radice famigliare?
«Della mia famiglia preferisco non parlare. Racconto un sacco di bugie e continuerò a farlo. O – come disse una volta mio figlio, che spesso ha molta più ironia di me – papà ha fatto di tutto tranne uccidere».
Però i suoi romanzi non mentono.
«L’immaginazione non mente, diceva Bachelard. Sì, è vero, i miei libri sono pieni di campagna e montagna, che è il paesaggio della mia infanzia. Sono cresciuto con i nonni, ed ero un bambino piuttosto solitario. Mi piaceva molto passeggiare, parlare con gli animali e naturalmente immaginare. Non so se questa possa essere considerata una mia radice di sinistra. Il fatto di avere molta immaginazione significa sognare delle possibilità diverse, e questo può diventare una risorsa. Poi tra Monzuno e Marzabotto ascoltavo i racconti della guerra partigiana. Ascoltavo i vincitori, che mi avevano regalato la libertà. Ma ascoltavo anche i vinti, che completavano una narrazione piena di dolore. La lezione più bella me la diede un partigiano quando gli chiesi cosa si prova la prima volta che s’imbraccia un fucile. “Non è stato un bel giorno. Prendere un fucile in mano non è mai un bel giorno”. Non c’erano accenti trionfali, solo grande sofferenza».
La campagna nei suoi libri è sempre vista come un “altrove” rispetto a una modernità cattiva, che avvelena e distrugge.
«Non tutto quello che viene chiamato progresso fa progredire. Non credo che la tecnologia risolva il problema della solitudine. I cellulari ad esempio: risolvono un problema di comunicazione, non di relazione. Così la televisione: è stata importante per l’alfabetizzazione, ma poi non credo che abbia reso gli italiani più intelligenti. O il web. Ne so molto poco, credo che sia una grande possibilità di libertà e informazione, ma che crei anche oligarchie e centri di controllo. Ed è presto per parlare di democrazia del web: non tutti in Italia possiedono il computer ».
A proposito di solitudine, è un tema centrale nei suoi romanzi. Colpisce una frase posta ad esergo dellaGrammatica di Dio:«Tra gli dei che gli uomini inventarono, il più generoso è quello che unendo molte solitudini ne fa un giorno di allegria». Questo dio è per lei la politica?
«Sì, quando è qualcosa che ristabilisce la felicità e la responsabilità delle relazioni sociali. Se come artista viaggio nei mondi della solitudine, come cittadino cerco con tutte le mie forze di affrontarla o, meglio, di metterne insieme tante, fuse in progetti comuni. Scrivo della solitudine degli altri, ma scrivo soprattutto della mia. E ancora non sono riuscito a venirne a capo. Più passa il tempo, è come se nei miei libri il comico cedesse il passo a una riflessione filosofica sui sentimenti. Me l’ha fatto notare Goffredo Fofi. È stato lui, insieme a Grazia Cherchi, ad impedirmi di adagiarmi sulla retorica di sinistra».
Che cos’è la retorica di sinistra?
«Non fare diventare il proprio essere di sinistra una esibizione, una superiorità mai confrontata nei fatti. Nutrire dubbi, sempre. Anche sulla propria qualità letteraria. Dubbi che tuttora mantengo. Però io parlo d’una stagione culturale che forse ci siamo lasciati alle spalle. Oggi prevale una certa rassegnazione, la difficoltà di resistere alle seduzioni e alle scelte un po’ misere del mercato editoriale e dello spettacolo. È un meccanismo da cui anche io mi devo guardare. Tutte le volte che mi viene chiesto qualcosa, devo sforzarmi di scrivere al meglio. Forse perché l’editore si accontenterebbe di qualsiasi cosa. Anche a teatro, la ragione per cui ho un po’ lasciato il genere comico è che per molti anni è stato il più richiesto. Ma a me nonpiace farmi chiudere in una scatola».
E neppure in una fotografia.
«No, neppure in una foto. Soprattutto se, nell’impazzimento mediatico, vale più di trent’anni di libri».
(3. Continua)